Senza confini di Gaia Salvatori
Un pittore che scrive di sé, o di chi gli è troppo vicino, va creduto solo in parte. Ci penso leggendo le due brevi note biografiche redatte da Guido Sacerdoti su se stesso e su Lelle (Adele) Levi, sua madre, così diverse dalle altre, canoniche, ripetitive, anodine, dei tanti pittori presenti alla Rassegna internazionale di Arte contemporanea del 1997 a Teggiano. ‘Ritratto’ di sé e dei suoi dal piglio ironico e lievemente surreale: poche righe taglienti lo ‘disegnano’ o ‘dipingono’ medico capace di “utilizzare un’amplissima gamma cromatica”, così come vedono nella vita della madre pittrice (sospinta dall’onda lunga delle leggi razziali da Torino a Napoli nel 1942) il ‘ritratto’ di un’illusione, come quella di poter affidare alla pittura “l’illusione di mescolare acqua dolce e acqua salmastra”. È tutto qui. La soluzione dell’inestricabile rapporto fra il sé e la pittura ha trovato lui: disposto col camice da medico e i pennelli da artista a lasciarsi avvinghiare dai paradossi di un’identità almeno bifronte. Eccoli nei colori, nelle trame, nei vortici che, così poco realisticamente, crescono e si sviluppano sulla tela per saturare gli sfondi, per non lasciar penetrare sguardi superficiali alla ricerca della rappresentazione o della somiglianza dei volti o delle cose. Nella scrittura dunque, come nella pittura, Guido che non scrive romanzi, e dichiara di non dipingere per esporre, incarna un linguaggio complesso, ricco, saturo di contenuti e rimandi colti, sa presentarsi e presentare (come nella ‘prima ed ultima’ sua personale negli spazi del rimpianto “L’Incontro. Club d’Arte” dell’ostinato e speciale Ziccardi nel 1976, o nell’ariosa e partecipata, squisitamente letteraria, introduzione alla mostra dei quadri degli anni della Resistenza di Carlo Levi a Castel Nuovo nel 2005, «Siamo liberati»). Queste impressioni scaturiscono proprio dall’aver conosciuto troppo poco, sul piano personale, l’autore di quelle righe e di quelle tele, dall’esigenza di avvicinarsi a qualche elemento di profondità, nel rammarico di non saperne abbastanza, tanto da riuscire a riconoscere e a riconoscersi nella sua disposizione passionale al “ritratto dell’anima”, come in occasione dell’addio corale ha scritto l’amico Paolo Macry.
Mi lascio trascinare dalle sue tele, quindi, oltre che da qualche brano scritto, senza pretendere di ricostruire sequenze cronologiche o racconti di vita e non vedo né un primo né un ultimo quadro segnare un confine. Così li ho visti come un flusso (forse per la prima volta tutti insieme) amorevolmente accatastati alla pareti della casa di villa Haas per essere sottoposti a selezione, ai fini della mostra.
La sequenza potrebbe essere nei titoli, come quelli della galleria/libreria vomerese “L’Incontro” (ricordo lontano di una tipologia che qualcuno vorrebbe estinta) che, dal n. 35 al n. 45 dell’elenco delle opere, sciorinava: “Agave Carrubo Paesaggio Paesaggio Tronchi Carrubo Paesaggio Carrubo Paesaggio Riflessi Pineta”, a fianco a molti “Ritratto di...”, personaggi importanti, a vari livelli, della sua vita, affidati a volte al solo nome e cognome puntato. Comunque verranno oggi esposte, sono certa che queste tele lasceranno saltare logiche sequenziali, indurranno chi le incrocerà ad esserne ‘posseduto’, come chi è stato scelto da Guido per un ritratto (e ne valgano a testimonianza le sincere e acute parole di Macry già ricordate), tanto da rimandare implicitamente a immaginarie altre possibili rivelazioni di chi, con il colore di Guido, si è sentito capito. Questo colore espressivo, senza remore, a pennellate vibranti, coraggiose e materiche – proveniente dall’inesauribile vena post-impressionista della migliore pittura europea – scavalca, quindi, quella dichiarata “paura della pittura” del secolo XX che lo zio Carlo nel 1942 (metafora di un ben più tagliente orrore nei confronti di una libertà ferita a morte) leggeva come “strumento di impossibile salute” nella ferocia dei tempi. A contrastare il sommo pericolo di estraneità e assenza dal mondo al centro del testo teorico leviano molto amato da Guido, il suo colore espressivo sembra rivelatore, al contrario e nonostante i momenti di crisi, di una voglia travolgente (senza un prima né un dopo) di attraversare le forme della natura, come dei volti cari, quali cose preziose su cui fare puntello. “Con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo” – seguendo alcune sue parole della presentazione della mostra del 1976 – ha dipinto non solo ritratti di amici e amiche e familiari, ma anche paesaggi, luoghi-frammento di momenti dedicati a se stesso. Non c’è spazio, però, negli uni come negli altri, per vuoti dello sguardo (obbligatori nel linguaggio della rappresentazione): quando, raramente, si aprono sullo sfondo, sono vuoti allusivi, qualche volta di simboli, che tendono a trasformarsi, al di là delle forme, in straripamenti visionari, fino a lasciar levitare gli oggetti, di nature tutt’altro che morte, in uno spazio senza gravità. Ecco che allora, riallacciando colori e titoli, presunte genealogie e rimandi auto/biografici, metafore e avviluppi di pensiero, gli autoritratti (più di quelli che si vedono) riagganciano il solare e trasparente suo ritratto di bambino visto dagli occhi dello zio in visita a Napoli nel 1945, presente alla ricordata mostra di Carlo Levi nel 2005. Ad esso sembra ‘rispondere’, in tutt’altra chiave, il ricordo che Guido dedica alla figura centrale di Carlo, subito dopo la sua morte nel 1975: non più un ritratto, ma un paesaggio, se possibile, in cui il volto esangue dell’importante zio scrittore/pittore quasi non si distingue dagli elementi, frammentari e nodosi, della natura di cui ha voluto far parte.
È il modo migliore che Guido poteva scegliere nelle sue varie forme di richiamare la Paternità (come si intitola uno dei suoi quadri più belli, in copertina) al Tempo: altra tela da cui ci si può lasciar ‘possedere’, in cui organico e inorganico si fondono, si incastrano quasi come tasselli musivi tridimensionali, privi di peso e agglomerati da una levità che non è leggerezza, solidale al suo passo di corsa e alla musica amata. Senza un prima né un dopo.
Un pittore che scrive di sé, o di chi gli è troppo vicino, va creduto solo in parte. Ci penso leggendo le due brevi note biografiche redatte da Guido Sacerdoti su se stesso e su Lelle (Adele) Levi, sua madre, così diverse dalle altre, canoniche, ripetitive, anodine, dei tanti pittori presenti alla Rassegna internazionale di Arte contemporanea del 1997 a Teggiano. ‘Ritratto’ di sé e dei suoi dal piglio ironico e lievemente surreale: poche righe taglienti lo ‘disegnano’ o ‘dipingono’ medico capace di “utilizzare un’amplissima gamma cromatica”, così come vedono nella vita della madre pittrice (sospinta dall’onda lunga delle leggi razziali da Torino a Napoli nel 1942) il ‘ritratto’ di un’illusione, come quella di poter affidare alla pittura “l’illusione di mescolare acqua dolce e acqua salmastra”. È tutto qui. La soluzione dell’inestricabile rapporto fra il sé e la pittura ha trovato lui: disposto col camice da medico e i pennelli da artista a lasciarsi avvinghiare dai paradossi di un’identità almeno bifronte. Eccoli nei colori, nelle trame, nei vortici che, così poco realisticamente, crescono e si sviluppano sulla tela per saturare gli sfondi, per non lasciar penetrare sguardi superficiali alla ricerca della rappresentazione o della somiglianza dei volti o delle cose. Nella scrittura dunque, come nella pittura, Guido che non scrive romanzi, e dichiara di non dipingere per esporre, incarna un linguaggio complesso, ricco, saturo di contenuti e rimandi colti, sa presentarsi e presentare (come nella ‘prima ed ultima’ sua personale negli spazi del rimpianto “L’Incontro. Club d’Arte” dell’ostinato e speciale Ziccardi nel 1976, o nell’ariosa e partecipata, squisitamente letteraria, introduzione alla mostra dei quadri degli anni della Resistenza di Carlo Levi a Castel Nuovo nel 2005, «Siamo liberati»). Queste impressioni scaturiscono proprio dall’aver conosciuto troppo poco, sul piano personale, l’autore di quelle righe e di quelle tele, dall’esigenza di avvicinarsi a qualche elemento di profondità, nel rammarico di non saperne abbastanza, tanto da riuscire a riconoscere e a riconoscersi nella sua disposizione passionale al “ritratto dell’anima”, come in occasione dell’addio corale ha scritto l’amico Paolo Macry.
Mi lascio trascinare dalle sue tele, quindi, oltre che da qualche brano scritto, senza pretendere di ricostruire sequenze cronologiche o racconti di vita e non vedo né un primo né un ultimo quadro segnare un confine. Così li ho visti come un flusso (forse per la prima volta tutti insieme) amorevolmente accatastati alla pareti della casa di villa Haas per essere sottoposti a selezione, ai fini della mostra.
La sequenza potrebbe essere nei titoli, come quelli della galleria/libreria vomerese “L’Incontro” (ricordo lontano di una tipologia che qualcuno vorrebbe estinta) che, dal n. 35 al n. 45 dell’elenco delle opere, sciorinava: “Agave Carrubo Paesaggio Paesaggio Tronchi Carrubo Paesaggio Carrubo Paesaggio Riflessi Pineta”, a fianco a molti “Ritratto di...”, personaggi importanti, a vari livelli, della sua vita, affidati a volte al solo nome e cognome puntato. Comunque verranno oggi esposte, sono certa che queste tele lasceranno saltare logiche sequenziali, indurranno chi le incrocerà ad esserne ‘posseduto’, come chi è stato scelto da Guido per un ritratto (e ne valgano a testimonianza le sincere e acute parole di Macry già ricordate), tanto da rimandare implicitamente a immaginarie altre possibili rivelazioni di chi, con il colore di Guido, si è sentito capito. Questo colore espressivo, senza remore, a pennellate vibranti, coraggiose e materiche – proveniente dall’inesauribile vena post-impressionista della migliore pittura europea – scavalca, quindi, quella dichiarata “paura della pittura” del secolo XX che lo zio Carlo nel 1942 (metafora di un ben più tagliente orrore nei confronti di una libertà ferita a morte) leggeva come “strumento di impossibile salute” nella ferocia dei tempi. A contrastare il sommo pericolo di estraneità e assenza dal mondo al centro del testo teorico leviano molto amato da Guido, il suo colore espressivo sembra rivelatore, al contrario e nonostante i momenti di crisi, di una voglia travolgente (senza un prima né un dopo) di attraversare le forme della natura, come dei volti cari, quali cose preziose su cui fare puntello. “Con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo” – seguendo alcune sue parole della presentazione della mostra del 1976 – ha dipinto non solo ritratti di amici e amiche e familiari, ma anche paesaggi, luoghi-frammento di momenti dedicati a se stesso. Non c’è spazio, però, negli uni come negli altri, per vuoti dello sguardo (obbligatori nel linguaggio della rappresentazione): quando, raramente, si aprono sullo sfondo, sono vuoti allusivi, qualche volta di simboli, che tendono a trasformarsi, al di là delle forme, in straripamenti visionari, fino a lasciar levitare gli oggetti, di nature tutt’altro che morte, in uno spazio senza gravità. Ecco che allora, riallacciando colori e titoli, presunte genealogie e rimandi auto/biografici, metafore e avviluppi di pensiero, gli autoritratti (più di quelli che si vedono) riagganciano il solare e trasparente suo ritratto di bambino visto dagli occhi dello zio in visita a Napoli nel 1945, presente alla ricordata mostra di Carlo Levi nel 2005. Ad esso sembra ‘rispondere’, in tutt’altra chiave, il ricordo che Guido dedica alla figura centrale di Carlo, subito dopo la sua morte nel 1975: non più un ritratto, ma un paesaggio, se possibile, in cui il volto esangue dell’importante zio scrittore/pittore quasi non si distingue dagli elementi, frammentari e nodosi, della natura di cui ha voluto far parte.
È il modo migliore che Guido poteva scegliere nelle sue varie forme di richiamare la Paternità (come si intitola uno dei suoi quadri più belli, in copertina) al Tempo: altra tela da cui ci si può lasciar ‘possedere’, in cui organico e inorganico si fondono, si incastrano quasi come tasselli musivi tridimensionali, privi di peso e agglomerati da una levità che non è leggerezza, solidale al suo passo di corsa e alla musica amata. Senza un prima né un dopo.