Ritratto dell’anima di Paolo Macry
Non sono uno storico dell'arte e non posso valutare con i ferri del mestiere i quadri di Guido Sacerdoti, ma credo di sapere per esperienza cosa significasse per lui affidare alla tela il volto e il corpo di un amico o di un familiare. Il biondo dottore con lo zaino non inseguiva miti realistici. Piuttosto, in quei ritratti, portava alla luce ciò che non si vede a occhio nudo, riusciva a cogliere quel che riteneva essere il cuore profondo del suo soggetto. Era un interprete, non un cronista. E la sua interpretazione trasudava un understanding intenso, vivace, fantasioso.
Ricordo i pomeriggi trascorsi a villa Haas, davanti all'intelligenza della sua tavolozza. Guido buttava lì un argomento di conversazione, con ironica vena psicoanalitica. Ma poi non parlava: ascoltava, aggrottava la fronte, acconsentiva, socchiudeva gli occhi, sorrideva. E intanto dipingeva. Voleva capire chi ero in quel momento e, al tempo stesso, afferrare le mie radici. Non in modo passivo, tuttavia. Al contrario, mescolava al mio ego parlante il suo ego silenzioso e, però, mobilissimo e vorace.
Già, perché quel singolare folletto di ermeneuta non si limitava a comporre - nell'immagine dell'amico- la sequenza di anamnesi, diagnosi e forse prognosi. Non agiva mai con il distacco dell'analista in camice bianco: non lo faceva nella sua professione di allergologo, figurarsi come ritrattista. Piuttosto, tuffandosi come un sub nell'amatissima pittura, cercava di possedere il suo soggetto e al tempo se ne faceva possedere. Dipingere significava capire, e capire significava possedere ed essere posseduti.
Nel ritratto che mi fece alcuni decenni orsono e che ho qui davanti, i miei occhi sono evidentemente i miei, ma sono anche inconfondibilmente i suoi. Ricordo che, una sera d'estate, quando sembrava l'avesse terminato, volle aggiungere al quadro il segno surreale di una mano rossastra, deforme, forse diabolica, che ghermiva la donna disegnata accanto a me. Ero io, era lui? Non faceva differenza. Era il segno del possesso, la testimonianza di una passione illimitata nel cercare di capire e, non di meno, l'urgenza di esserci lui stesso. Sicché, a dispetto della discrezione del suo autore, ne venne fuori una tela intensamente esistenziale, sfacciatamente priva di accademismi, amorevole fino al punto di essere impudica.
Non sono uno storico dell'arte e non posso valutare con i ferri del mestiere i quadri di Guido Sacerdoti, ma credo di sapere per esperienza cosa significasse per lui affidare alla tela il volto e il corpo di un amico o di un familiare. Il biondo dottore con lo zaino non inseguiva miti realistici. Piuttosto, in quei ritratti, portava alla luce ciò che non si vede a occhio nudo, riusciva a cogliere quel che riteneva essere il cuore profondo del suo soggetto. Era un interprete, non un cronista. E la sua interpretazione trasudava un understanding intenso, vivace, fantasioso.
Ricordo i pomeriggi trascorsi a villa Haas, davanti all'intelligenza della sua tavolozza. Guido buttava lì un argomento di conversazione, con ironica vena psicoanalitica. Ma poi non parlava: ascoltava, aggrottava la fronte, acconsentiva, socchiudeva gli occhi, sorrideva. E intanto dipingeva. Voleva capire chi ero in quel momento e, al tempo stesso, afferrare le mie radici. Non in modo passivo, tuttavia. Al contrario, mescolava al mio ego parlante il suo ego silenzioso e, però, mobilissimo e vorace.
Già, perché quel singolare folletto di ermeneuta non si limitava a comporre - nell'immagine dell'amico- la sequenza di anamnesi, diagnosi e forse prognosi. Non agiva mai con il distacco dell'analista in camice bianco: non lo faceva nella sua professione di allergologo, figurarsi come ritrattista. Piuttosto, tuffandosi come un sub nell'amatissima pittura, cercava di possedere il suo soggetto e al tempo se ne faceva possedere. Dipingere significava capire, e capire significava possedere ed essere posseduti.
Nel ritratto che mi fece alcuni decenni orsono e che ho qui davanti, i miei occhi sono evidentemente i miei, ma sono anche inconfondibilmente i suoi. Ricordo che, una sera d'estate, quando sembrava l'avesse terminato, volle aggiungere al quadro il segno surreale di una mano rossastra, deforme, forse diabolica, che ghermiva la donna disegnata accanto a me. Ero io, era lui? Non faceva differenza. Era il segno del possesso, la testimonianza di una passione illimitata nel cercare di capire e, non di meno, l'urgenza di esserci lui stesso. Sicché, a dispetto della discrezione del suo autore, ne venne fuori una tela intensamente esistenziale, sfacciatamente priva di accademismi, amorevole fino al punto di essere impudica.