Vita e pittura di Stefano Levi Della Torre
La villa che si affaccia sul golfo di Alassio a cento metri sul mare, col giardino che sborda in una vasta campagna, un tempo coltivata, digradante in rapido pendio di rocce e fasce di ulivi e carrubi , di mandorli e qua e là di eucalipti dalla corteccia rosata, e fichi e fichi d’India, agavi e palme, è stata il nostro romanzo di formazione. Un Eden estivo, pieno di odori vegetali, in cui campeggiava l’autorità benevola di Carlo Levi, nostro zio, che accompagnavamo in quella luce serale che esalta colori e odori a installare il cavalletto, la tavolozza e la tela, e assistevamo all’inizio di un quadro che poi ritornava finito col buio, quando le cicale erano da tempo cessate e le rane gracidavano da remote vasche di irrigazione.
Imparavamo la pittura come piacere fisico e mentale, come immaginazione di ciò che si vede, che si sente seminudi sulla pelle nel tepore estivo. E imparavamo anche a pensare, e l’impegno politico nelle conversazioni familiari la sera sotto il pergolato. Al mattino eravamo atleti sulla spiaggia e Guido mi batteva nel salto e più tardi nella corsa, quando adulto divenne vero maratoneta allenandosi in sentieri solitari lungo le creste delle colline. Eravamo in una continua competizione, e intrecciavamo immaginazioni e ideali, in quel modo che radica in giovinezza le più profonde amicizie della vita.
Guido era un uomo di molti talenti. Pittore, medico di grande competenza scientifica e di cultura umanistica e psicoanalitica, scrittore, musicista dilettante, atleta, scacchista (anche qui rinunciai a competere con lui), e attivo nella politica della sinistra e in campo ebraico.
Sfidava i limiti. Era capace di passare da una cosa all’altra con passione, ma quasi in fuga, come spinto dall’inquietudine di moltiplicare la propria vita, e persino – a me pareva – dall’angoscia per l’irraggiungibile, come vivesse un suo racconto interiore fatto di reminiscenze felici o tormentose e di ardui orizzonti ideali. Come trovasse luogo al suo racconto nella intimità con sé stesso, nella concentrazione della pittura o nella fuga solitaria della corsa. Pure amava la compagnia e le feste da cui nascevano le sue rime conviviali e molti ritratti, come scriveva nella presentazione della sua mostra del 1976 a Napoli: “Ma queste tele sono anche la cronistoria […] di nottate trascorse a dipingere il ritratto di amici e amiche, con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo […], perché dopo alcune ore devono scomparire il fumo dei sigari, la musica pop, l’odore dell’acqua ragia, la nuova creatura che è nata sulla tela, frutto di imprevedibili incesti e mescolanze”. Ecco appunto: partecipando pienamente all’incontro con gli amici nella sua casa vomerese, tra discussioni fumo e musica, Guido si ritagliava anche, nel dipingere, un suo spazio riservato. Dialogava con gli amici e nello stesso momento, dipingendo, dialogava intimamente, “incestuosamente”, con Carlo Levi: l’unico pittore che amo, scriveva. Lo amava come suo padre spirituale, non solo di pittura ma di vita.
Seguiva le sue orme per riviverne la felice libertà del gesto e della composizione. La pennellata densa di colore e sinuosa che disegna le forme come un flusso carezzevole senza temere l’errore descrittivo purché sia vitale, e la logica della pittura dica la sua deformando liberamente gli oggetti. Lo vediamo per esempio in “208 partite di Kasparov” (1984), nell’asimmetria delle impugnature della mezzaluna o nel piano ribaltato del taglio del pane. I chiari e gli scuri non descrivono solo la luce e l’ombra, ma sono soprattutto una ripartizione pittorica dello spazio in riquadri ondulanti che si compongono nel ritmo di un insieme; un insieme in cui l’irruzione della campitura rossa della copertina del libro su Kasparov racconta l’incontro tra la vita quotidiana e il suo sogno di scacchista (Kasparov era il grande maestro russo di scacchi), come un sovrappensiero che si mescola con le abitudini domestiche: un autoritratto indiretto, non fisico ma psichico. Gli accostamenti casuali sono un’eco del surrealismo, la scritta incerta un’eco del cubismo, o della pop art, ma tutto è fuso nel gesto mutuato da Carlo Levi e profondamente assimilato. Ecco appunto un frutto di imprevedibili incesti e mescolanze.
La villa che si affaccia sul golfo di Alassio a cento metri sul mare, col giardino che sborda in una vasta campagna, un tempo coltivata, digradante in rapido pendio di rocce e fasce di ulivi e carrubi , di mandorli e qua e là di eucalipti dalla corteccia rosata, e fichi e fichi d’India, agavi e palme, è stata il nostro romanzo di formazione. Un Eden estivo, pieno di odori vegetali, in cui campeggiava l’autorità benevola di Carlo Levi, nostro zio, che accompagnavamo in quella luce serale che esalta colori e odori a installare il cavalletto, la tavolozza e la tela, e assistevamo all’inizio di un quadro che poi ritornava finito col buio, quando le cicale erano da tempo cessate e le rane gracidavano da remote vasche di irrigazione.
Imparavamo la pittura come piacere fisico e mentale, come immaginazione di ciò che si vede, che si sente seminudi sulla pelle nel tepore estivo. E imparavamo anche a pensare, e l’impegno politico nelle conversazioni familiari la sera sotto il pergolato. Al mattino eravamo atleti sulla spiaggia e Guido mi batteva nel salto e più tardi nella corsa, quando adulto divenne vero maratoneta allenandosi in sentieri solitari lungo le creste delle colline. Eravamo in una continua competizione, e intrecciavamo immaginazioni e ideali, in quel modo che radica in giovinezza le più profonde amicizie della vita.
Guido era un uomo di molti talenti. Pittore, medico di grande competenza scientifica e di cultura umanistica e psicoanalitica, scrittore, musicista dilettante, atleta, scacchista (anche qui rinunciai a competere con lui), e attivo nella politica della sinistra e in campo ebraico.
Sfidava i limiti. Era capace di passare da una cosa all’altra con passione, ma quasi in fuga, come spinto dall’inquietudine di moltiplicare la propria vita, e persino – a me pareva – dall’angoscia per l’irraggiungibile, come vivesse un suo racconto interiore fatto di reminiscenze felici o tormentose e di ardui orizzonti ideali. Come trovasse luogo al suo racconto nella intimità con sé stesso, nella concentrazione della pittura o nella fuga solitaria della corsa. Pure amava la compagnia e le feste da cui nascevano le sue rime conviviali e molti ritratti, come scriveva nella presentazione della sua mostra del 1976 a Napoli: “Ma queste tele sono anche la cronistoria […] di nottate trascorse a dipingere il ritratto di amici e amiche, con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo […], perché dopo alcune ore devono scomparire il fumo dei sigari, la musica pop, l’odore dell’acqua ragia, la nuova creatura che è nata sulla tela, frutto di imprevedibili incesti e mescolanze”. Ecco appunto: partecipando pienamente all’incontro con gli amici nella sua casa vomerese, tra discussioni fumo e musica, Guido si ritagliava anche, nel dipingere, un suo spazio riservato. Dialogava con gli amici e nello stesso momento, dipingendo, dialogava intimamente, “incestuosamente”, con Carlo Levi: l’unico pittore che amo, scriveva. Lo amava come suo padre spirituale, non solo di pittura ma di vita.
Seguiva le sue orme per riviverne la felice libertà del gesto e della composizione. La pennellata densa di colore e sinuosa che disegna le forme come un flusso carezzevole senza temere l’errore descrittivo purché sia vitale, e la logica della pittura dica la sua deformando liberamente gli oggetti. Lo vediamo per esempio in “208 partite di Kasparov” (1984), nell’asimmetria delle impugnature della mezzaluna o nel piano ribaltato del taglio del pane. I chiari e gli scuri non descrivono solo la luce e l’ombra, ma sono soprattutto una ripartizione pittorica dello spazio in riquadri ondulanti che si compongono nel ritmo di un insieme; un insieme in cui l’irruzione della campitura rossa della copertina del libro su Kasparov racconta l’incontro tra la vita quotidiana e il suo sogno di scacchista (Kasparov era il grande maestro russo di scacchi), come un sovrappensiero che si mescola con le abitudini domestiche: un autoritratto indiretto, non fisico ma psichico. Gli accostamenti casuali sono un’eco del surrealismo, la scritta incerta un’eco del cubismo, o della pop art, ma tutto è fuso nel gesto mutuato da Carlo Levi e profondamente assimilato. Ecco appunto un frutto di imprevedibili incesti e mescolanze.
Racconti per indizi: “Paternità” (1980, in copertina) è un quadro pieno d’aria mattutina, con le vesti infantili appese ad asciugare nel vento su un filo teso come un orizzonte senza principio né fine, di generazione in generazione, nel mito di Alassio come luogo della continuità e della formazione: rievocazione della propria infanzia in quella dei figli, mentre chi si sente ancora figlio e discepolo è diventato padre. Qui la pennellata si rompe in tocchi più minuti, danzando sulla tela con felicità luminosa. “Colline lucane” (1976) è invece un poetico saluto all’autore del Cristo si è fermato a Eboli a un anno dalla sua morte.
Coraggiosamente, i crinali tracciati in rosso ruggine si raffreddano in azzurro negli avvallamenti, mentre l’inquadratura, proprio perché ristretta come un frammento quasi casuale di paesaggio, rafforza la sensazione di infinito, di indefinito continuare delle masse montuose a destra e a sinistra, oltre i confini della tela: forma non chiusa e però composta. Questo criterio per cui il frammento lascia immaginare di più che l’intero lo vediamo anche in altri dipinti, come in “Agave” (2009): la pianta resta fuori dal quadro, e le lunghe foglie carnose, striate di verde e giallo e contornate dal ritmo delle spine laterali, scivolano nello spazio dipinto con un moto flessuoso, come una mutazione del vegetale in animale. Simile è il racconto di metamorfosi (dal legno al corpo) dei tronchi tormentati dei carrubi, anch’essi frammenti e non alberi interi.
Da Carlo Levi imparammo che il ritratto è meglio non sia da posa ferma se non per pochi momenti. Meglio che sia piuttosto una conversazione, in modo che il soggetto sia colto in movimento e l’immagine si accumuli come condensazione di momenti diversi e di diverse espressioni. Guido era un gran narratore, e credo che molti dei soggetti ritratti abbiano potuto godere delle sue storie mentre posavano. Ma lo stesso pittore trae vantaggio dal conversare, proprio perché lo distrae dal controllo della pittura e libera invece dal pre-giudizio le sue percezioni della persona che gli sta di fronte, sollecitata nella conversazione a scoprire i suoi diversi strati e aspetti, più spontanei e meno atteggiati. Questa è la difficoltà particolare dell’autoritratto allo specchio, indotti come siamo a rappresentare quello che pensiamo di noi piuttosto che quello che siamo. E però i due autoritratti presenti in mostra, quello quattordicenne (1958) di sorprendente sicurezza e quello più adulto, che lascia trasparire qualche dubbio su di sé, mi sembrano aggirare per immediatezza questo problema.
Tra i ritratti qui esposti a me sembra spicchino per qualità quello di Dino S. (suo padre, 1980), e soprattutto quello di Alberto Abruzzese (1978) per la sicurezza del tratto, la disinvoltura cromatica e l’espressione interlocutoria e scettica: certo, pittore e modello stavano parlando tra loro.
Alassio era il luogo in cui le nostre età, l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia, si lasciavano ancora vagamente sentire compresenti. Gli odori vegetali, il mare, la fermentazione dei fichi maturi favorivano l’illusione di un tempo ciclico, mentre la campagna inselvatichiva, le case si sbrecciavano e i muri a secco franavano per la pressione dell’acqua e dei grifi dei cinghiali in cerca di radici. Dai paesaggi (1959, 1961) in cui gli ulivi ancora spiccavano argentei contro la terra rosata dell’arativo, Guido era passato a dipingere la campagna divenuta foresta di rovi e ligustri (“Giungla”). Sognava Carlo Levi bambino come un altro sé stesso che tornava all’inizio (“Natura morta con sogno”, 1983).
L’ho visto l’ultima volta ad Alassio, a fine giugno 2013. Fece come sempre la sua corsa sulla cresta delle colline. Ancora non sapeva del suo male. Pochi giorni dopo, allarmato, gli telefonai a Napoli. “Appena posso mi faccio vivo” mi disse ironico, cosciente del doppio senso di questo modo di dire.
Coraggiosamente, i crinali tracciati in rosso ruggine si raffreddano in azzurro negli avvallamenti, mentre l’inquadratura, proprio perché ristretta come un frammento quasi casuale di paesaggio, rafforza la sensazione di infinito, di indefinito continuare delle masse montuose a destra e a sinistra, oltre i confini della tela: forma non chiusa e però composta. Questo criterio per cui il frammento lascia immaginare di più che l’intero lo vediamo anche in altri dipinti, come in “Agave” (2009): la pianta resta fuori dal quadro, e le lunghe foglie carnose, striate di verde e giallo e contornate dal ritmo delle spine laterali, scivolano nello spazio dipinto con un moto flessuoso, come una mutazione del vegetale in animale. Simile è il racconto di metamorfosi (dal legno al corpo) dei tronchi tormentati dei carrubi, anch’essi frammenti e non alberi interi.
Da Carlo Levi imparammo che il ritratto è meglio non sia da posa ferma se non per pochi momenti. Meglio che sia piuttosto una conversazione, in modo che il soggetto sia colto in movimento e l’immagine si accumuli come condensazione di momenti diversi e di diverse espressioni. Guido era un gran narratore, e credo che molti dei soggetti ritratti abbiano potuto godere delle sue storie mentre posavano. Ma lo stesso pittore trae vantaggio dal conversare, proprio perché lo distrae dal controllo della pittura e libera invece dal pre-giudizio le sue percezioni della persona che gli sta di fronte, sollecitata nella conversazione a scoprire i suoi diversi strati e aspetti, più spontanei e meno atteggiati. Questa è la difficoltà particolare dell’autoritratto allo specchio, indotti come siamo a rappresentare quello che pensiamo di noi piuttosto che quello che siamo. E però i due autoritratti presenti in mostra, quello quattordicenne (1958) di sorprendente sicurezza e quello più adulto, che lascia trasparire qualche dubbio su di sé, mi sembrano aggirare per immediatezza questo problema.
Tra i ritratti qui esposti a me sembra spicchino per qualità quello di Dino S. (suo padre, 1980), e soprattutto quello di Alberto Abruzzese (1978) per la sicurezza del tratto, la disinvoltura cromatica e l’espressione interlocutoria e scettica: certo, pittore e modello stavano parlando tra loro.
Alassio era il luogo in cui le nostre età, l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia, si lasciavano ancora vagamente sentire compresenti. Gli odori vegetali, il mare, la fermentazione dei fichi maturi favorivano l’illusione di un tempo ciclico, mentre la campagna inselvatichiva, le case si sbrecciavano e i muri a secco franavano per la pressione dell’acqua e dei grifi dei cinghiali in cerca di radici. Dai paesaggi (1959, 1961) in cui gli ulivi ancora spiccavano argentei contro la terra rosata dell’arativo, Guido era passato a dipingere la campagna divenuta foresta di rovi e ligustri (“Giungla”). Sognava Carlo Levi bambino come un altro sé stesso che tornava all’inizio (“Natura morta con sogno”, 1983).
L’ho visto l’ultima volta ad Alassio, a fine giugno 2013. Fece come sempre la sua corsa sulla cresta delle colline. Ancora non sapeva del suo male. Pochi giorni dopo, allarmato, gli telefonai a Napoli. “Appena posso mi faccio vivo” mi disse ironico, cosciente del doppio senso di questo modo di dire.