Perché una mostra? di Guido Sacerdoti
Perché una mostra, questo impudico guardarsi allo specchio di tele senza cornice, questo viaggio rischioso per le strade del Vomero? Perché una voragine si è aperta nella notte inghiottendo automobili e mura settecentesche? Perché rivelare la natura ambigua di questa collina sulla quale si regge la mia casa (e la mia vita)? Per anni ho fatto un sogno ricorrente: nuotavo in un liquido tiepido e lattiginoso nella penombra di una stanza e, mentre un uomo nudo con una valigia mi invitava bruscamente ad uscirne, nel cielo buio della piscina nasceva, come un sole dal mare, il sorriso rosato di un pittore (dell’unico pittore che amo).
Ora che Carlo è morto, che l’eternità del mondo s’è rotta, ora che l’orologio è stato ritrovato, ora che il distacco ha generato insieme i padri e i figli, è forse giusto che la storia dei loro rapporti non venga nascosta e che il figliastro, se ne ha la forza e contro la sua natura, divenga padre. Questi cinquanta quadri non sono stati dipinti per essere esposti.
I tronchi, gli intrecci dei rami, le erbe della campagna ligure, sono i segni di una mappa che mi è stata data nell’infanzia, certezze arboree, sentieri troppo sicuri ma praticati ogni volta con il cuore in gola, quando è già buio e torno a casa con la tela fresca di colore e gli ulivi, la luna, i grilli, il golfo sono una dolcissima tagliola, l’unico paesaggio possibile, le immagini ripetute all’infinito di una identica condizione infantile e di nostalgie impossibili.
Ma queste tele sono anche la cronistoria di altri affetti e altre passioni: di nottate trascorse a dipingere il ritratto di amici e amiche, con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo, di un gesto di possesso che dura troppo poco, perché dopo alcune ore devono assolutamente scomparire il fumo dei sigari, la musica pop, l’odore dell’acquaragia, la nuova creatura che è nata sulla tela, frutto di imprevedibili incesti e mescolanze. Inoffensivo mister Hyde, indosso allora il camice bianco, cravatte irreprensibili, palpo fegati sconnessi, scruto fauci spalancate, ausculto gli echi dei venti che vanno e vengono negli anfratti polmonari; sento il gorgogliare delle acque negli intestini. I sottoproletari del Cotugno, gli impiegati del Banco di Napoli, le professoresse dei licei vomeresi, i vecchi della discesa Petraio, i “precari” dell’Istituto Orientale, raccontano al doctor Jekyll, con il linguaggio del “pazienti”, le loro autobiografie, immagine capovolta del mondo arboreo che precedeva le case, le strade, gli ospedali.
Levi, Pasolini, i giovani biondi che si allacciano, a pochi metri da questi quadri, tra i sacchetti della spazzatura.
Guido Sacerdoti, 1976
Perché una mostra, questo impudico guardarsi allo specchio di tele senza cornice, questo viaggio rischioso per le strade del Vomero? Perché una voragine si è aperta nella notte inghiottendo automobili e mura settecentesche? Perché rivelare la natura ambigua di questa collina sulla quale si regge la mia casa (e la mia vita)? Per anni ho fatto un sogno ricorrente: nuotavo in un liquido tiepido e lattiginoso nella penombra di una stanza e, mentre un uomo nudo con una valigia mi invitava bruscamente ad uscirne, nel cielo buio della piscina nasceva, come un sole dal mare, il sorriso rosato di un pittore (dell’unico pittore che amo).
Ora che Carlo è morto, che l’eternità del mondo s’è rotta, ora che l’orologio è stato ritrovato, ora che il distacco ha generato insieme i padri e i figli, è forse giusto che la storia dei loro rapporti non venga nascosta e che il figliastro, se ne ha la forza e contro la sua natura, divenga padre. Questi cinquanta quadri non sono stati dipinti per essere esposti.
I tronchi, gli intrecci dei rami, le erbe della campagna ligure, sono i segni di una mappa che mi è stata data nell’infanzia, certezze arboree, sentieri troppo sicuri ma praticati ogni volta con il cuore in gola, quando è già buio e torno a casa con la tela fresca di colore e gli ulivi, la luna, i grilli, il golfo sono una dolcissima tagliola, l’unico paesaggio possibile, le immagini ripetute all’infinito di una identica condizione infantile e di nostalgie impossibili.
Ma queste tele sono anche la cronistoria di altri affetti e altre passioni: di nottate trascorse a dipingere il ritratto di amici e amiche, con la furia di un atto amoroso a gara con il tempo, di un gesto di possesso che dura troppo poco, perché dopo alcune ore devono assolutamente scomparire il fumo dei sigari, la musica pop, l’odore dell’acquaragia, la nuova creatura che è nata sulla tela, frutto di imprevedibili incesti e mescolanze. Inoffensivo mister Hyde, indosso allora il camice bianco, cravatte irreprensibili, palpo fegati sconnessi, scruto fauci spalancate, ausculto gli echi dei venti che vanno e vengono negli anfratti polmonari; sento il gorgogliare delle acque negli intestini. I sottoproletari del Cotugno, gli impiegati del Banco di Napoli, le professoresse dei licei vomeresi, i vecchi della discesa Petraio, i “precari” dell’Istituto Orientale, raccontano al doctor Jekyll, con il linguaggio del “pazienti”, le loro autobiografie, immagine capovolta del mondo arboreo che precedeva le case, le strade, gli ospedali.
Levi, Pasolini, i giovani biondi che si allacciano, a pochi metri da questi quadri, tra i sacchetti della spazzatura.
Guido Sacerdoti, 1976